Queste poche righe non vanno intese come una completa dissertazione filosofica sulla dottrina di Karl Marx, e nemmeno hanno la presunzione di esserlo. Altrimenti sarei stato un filosofo, mica un Ingegnere (anche se il rimpianto di aver scelto la seconda carriera c’è eccome).
È sempre stato un nome ricorrente in casa mia fin da bambino, quando vedevo questo faccione barbuto e mi chiedevo chi mai fosse costui. Di solito era raffigurato in libri di mio nonno nei quali accanto al titolo campeggiava a caratteri cubitali la scritta “l’Unità”.
Poi a 19 anni mi sono trovato a studiarlo e ristudiarlo, soprattutto per la tesina di quinta superiore nella quale avevo scelto di darne una lettura in funzione della Rivoluzione Cubana.
E ora che faccio politica me ne rendo conto che non è stato tempo sprecato capire chi fosse quel signore (dall’aspetto sicuramente un brontolone eh), perchè tutte le grandi culture del novecento piaccia o no partono da quei concetti. Concetti che chi ha un minimo di cultura non può che riconoscere (sebbene i miei preferiti restino sempre Hegel e Feuerbach) come fondativi della dialettica politica anche attuale. Società, struttura, sovrastruttura, alienazione, e chi più ne ha più ne metta.
Certo c’è chi non ha quel minimo di cultura e quindi partirà con panegirici al contrario. Pace, fa parte del mondo.
E oggi che tutto il mondo ne parla, il “Manifesto del Partito Comunista” occupa un posto particolare nella mia biblioteca personale: un’edizione del 1948, casa editrice Einaudi. Ereditata da un Pivanti.