Una nazione “por la calle”

L’avevo anticipato, e so quanto mi costerà, non è mai un tema semplice perché vengono mischiate idee, passioni, cuori e persone. Soprattutto per chi da sinistra prova a dare un punto di vista su quanto sta accadendo sull’Isola. Ma non potevo esimermi dallo scrivere qualche riga, proprio perché anche in me vengono mischiate idee, passioni, cuori e persone. E lo pubblico oggi, CASUALMENTE dopo il 26 di luglio, data che tutti sanno cosa significhi per la “Revoluciòn”.

Le proteste che stanno attraversando Cuba in questi giorni, o meglio, che hanno attraversato Cuba nelle scorse settimane e proseguono nei luoghi dove le comunità di cubani sono più forti (Miami in testa, una città negli Stati Uniti nella quale puoi sopravvivere senza sapere l’inglese, dove vivono quasi un milione e mezzo di persone di origine cubana, ma anche a Roma), hanno radici più profonde di quanto si possano immaginare e non vanno liquidate semplicemente in proteste “anti-comuniste”, perché non è così.

In primo luogo è necessario capire il sistema economico dell’isola, che di fatto non c’è, è totalmente smembrato e sfibrato. Nel 1992, con la fine dell’U.R.S.S. dalla quale dipendeva quasi interamente l’economia del paese e il suo modello di sviluppo, si è entrati nei primi anni nel cosiddetto “periodo especial”, nel quale lo stato cubano si è trovato senza beni e ha dovuto reinventarsi un’economia. La produzione di materie prime (coltivazione di canna da zucchero, frutta, agave, tabacco e altri prodotti agricoli, ma non solo, anche estrazione di petrolio) e quella poca industria presente sull’isola non erano più sufficiente per reggere un intero paese che per di più aveva perso il suo partner principale all’estero e oserei dire anche quasi il blocco che dava senso alla sua struttura stessa. E quindi Cuba si è aperta al mondo, commercialmente e turisticamente, di fatto rendendo il turismo una delle voci principali della sua economia e sviluppando partnership per la gestione delle risorse dell’isola con paesi stranieri (Canada e Cina in testa), in modo da poter avere parte del know how assente sull’isola.

Ma tutto questo non basta, perché Cuba è rimasta con la gestione economica a “piani quinquennali” fino ai giorni nostri, senza avere dei piani di sviluppo moderni che potessero consentirne un’evoluzione restando nell’alveo della propria storia socialista. E così facendo si sono venuti a creare una serie di cortocircuiti, il primo dei quali è la penuria di beni e il costo degli stessi attraverso i canali ufficiali.

Il “mercado por la calle”, il mercato nero, che ha consentito per decenni ai Cubani di mantenersi non è una vera economia, ma è solamente un arrabattarsi al limite della sussistenza. Perchè è vero che ti porta quella poca liquidità momentanea che ti consente di vivere come singolo e come famiglia (e ci mancherebbe anche) ma non ha portato sviluppo al paese. Così come le rimesse dall’estero e anche gli invii di beni che puntualmente finiscono per la maggior parte rivenduti “por la calle”, portano sì liquidità e sussistenza ma non sviluppo per il paese.

Così come le timide aperture verso l’iniziativa privata commerciale, se non inserite in un quadro economico complessivo più ampio, portano a poco.

Ho avuto modo di “vivere” Cuba dal 2006 al 2014, una fetta importante della mia vita, e ne ho amato e capito le contraddizioni. Basti pensare che negli anni è il vivere stesso sull’isola che porta a incentivare il sistema del mercato nero. Sei un muratore? Dopo l’orario di lavoro fallo in nero, per chi ti chiede di sistemare la casa, e ci guadagni pure di più che a lavorare legalmente. Lavori in un hotel? Porta fuori dal bar due bottiglie di rum e rivendile ai turisti, ci porti a casa quei dollari con i quali magari compri qualcosa per casa tua. Hai un “almendron” (auto anni ’50, in gergo vengono chiamate così)? Piazzati fuori da un hotel e porta in giro dei turisti, anche se non è legale, ci guadagni comunque di più.

Capite che un sistema così non può reggere. L’embargo esiste, ma le ripercussioni sono più politiche al giorno d’oggi, in primo luogo perché non può continuare ad essere il pretesto per la mancanza di beni (“por la calle” si trova qualunque cosa, ma sul serio) e per tutti i problemi dell’isola, poiché uno dei maggiori partner commerciali di Cuba sono comunque gli Stati Uniti, seguiti dal Canada (e non mi pare che il Canada politicamente sia un paese “canaglia” né tantomeno povero), la Cina e l’Italia. Il problema è il sistema di gestione dei beni una volta giunti nell’isola, perché spesso i costi lievitano proprio a causa del mercato nero che permette comunque la sussistenza. Anzi, spesso le autorità fomentano e sono parte stessa del sistema del mercato nero (non è raro che siano le forze dell’ordine stesse a chiedere soldi pur di “chiudere gli occhi” o a rivedere gli stessi beni dopo sequestri di dubbia liceità).

Ma non è solo questo, la sto prendendo larga per arrivare al punto del perché delle proteste. A Cuba da generazioni manca la formazione di una classe dirigente a qualunque livello che possa guidare il paese in un mondo totalmente diverso da quello nel quale ha sviluppato il suo essere. I due blocchi che vedevano contrapposti U.S.A. e U.R.S.S. si sono interamente rimescolati, uno degli attori nemmeno esiste più e ne sono sorti di nuovi e altri sono risorti in modo diverso. La classe dirigente dell’isola invece è rimasta bloccata nel suo quadrato ideologico dentro un mondo geopoliticamente diverso. Estremamente diverso.

E la classe “media” potenziale dell’isola, quella classe media dalla quale poteva essere formata questa classe dirigente è fuori dall’isola, è emigrata e comunque fomenta e alimenta quel sistema “por la calle” con le rimesse e l’invio di beni, e ci mancherebbe perché consentono di far vivere famigliari rimasti là.

Negli Stati Uniti invece la questione cubana, soprattutto per i cubani “en el exilio” è puramente un’arma di consenso. I cubani a Miami sono i discendenti di quella “high class” connivente con gli Stati Uniti che è scappata appena dopo la Rivoluzione. Ed è normale che sia contro qualunque cosa avvenga sull’isola, anzi soffia sul fuoco per mantenere quella divisione, collocandosi politicamente con il Partito Repubblicano, come per esempio il Senatore della Florida Marco Rubio. I cubani negli altri paesi invece si collocano a sinistra, perchè hanno un’emigrazione e una storia più legata a quello che è avvenuto dopo la Rivoluzione.

E veniamo al punto. Oggi la classe politica che governa Cuba si è formata dopo la Rivoluzione, non sono più i Comandanti della Rivoluzione, e per quanto detto sopra una vera classe dirigente post rivoluzionaria non si è mai formata. Il Covid ha dato poi una “mazzata” decisiva, perché venendo a mancare una delle voci principali dell’economia dell’isola, ossia il turismo ma anche i cubani di ritorno che portavano beni e liquidità (aggiungiamo anche il fatto che con l’amministrazione Trump è diventato più difficile inviare rimesse a Cuba) ci si è trovati in una profonda crisi, sfociata poi in proteste per esasperazione alle quali lo stato cubano non è stato in grado e potenzialmente non sarà in grado di far fronte, se non con gesti di repressione. Per questo le proteste spesso hanno unito sia persone convintamente “Revolucionarios” sia persone che addirittura con la “Revoluciòn” hanno poco a che fare. Lasciano invece il tempo che trovano le “star” cubane che prima si definiscono castriste e poi una volta a Miami diventano repubblicane, solo business fine al proprio galleggiamento.

Cuba è riuscita in questi anni a mantenere un livello di welfare invidiabile per quanto riguarda quella regione del mondo, un welfare legato ad una sanità gratuita e universalistica (nonostante la cronica penuria di beni), un’istruzione di buon livello e un ottimo livello di sicurezza interna, ma purtroppo ha mantenuto un’economia basata solamente sull’assistenzialismo e sulla sussistenza.

Se le proteste dovessero continuare, non tanto all’estero quanto internamente, ci sono solamente due scenari: o lo stato cubano riesce a dare risposte di modernizzazione vera del paese, oppure il rischio di una regressione in chiave puramente “colonialistica”, per arrivare ad una situazione di tensione sociale simile a quella di Porto Rico.

Otto anni della mia vita. Otto anni che mi hanno dato tantissimo. E proprio per questo mi sento di poter scrivere queste righe, perché mi sento sia vicino alla storia della “Revolucion” sia ad un futuro che vorrei vedere per Cuba, un futuro degno della sua storia di lotta e di simboli.

Avanti, attendo fuochi da destra e sinistra. Ma intanto queste righe le ho scritte, e per comprenderle meglio consiglio la visione del Film “7 dias en La Habana”, soprattutto gli spezzoni dedicati al “Sabado” e al “Domingo”. Buona lettura e buona visione.